INTERVISTA DI GAETANO CUFFARI A CARLO PESTELLI

Carlo Pestelli intervistato da Vetrina delle Emozioni

È con immenso piacere che Vetrina delle Emozioni da il benvenuto al talentuoso cantautore torinese Carlo Pestelli.

Carlo Pestelli vive a Torino dove è nato nel 1973. Inizia giovanissimo col pianoforte, ma è con la chitarra che a quattordici anni scrive la sua prima canzone. Del 1996 la sua prima registrazione, Tarabas ieri sera, che conosce una buona diffusione nelle radio della sua città.

Tenendo presente il percorso dei primi cantautori italiani tra cui Amodei (con cui suona in numerose occasioni dal 1994 al 2005 in Italia e all’estero), De André, Guccini, Lolli, Ciampi, Buscaglione, fra gli altri, crea uno stile tutto suo fatto di ballate (r)esistenziali e canzoni ironiche che diventano le due facce di una stessa medaglia. Il suo disco d’esordio, del 2001, s’intitola Zeus ti vede (www.vitaminic.it). Al lavoro collaborano vecchie conoscenze della scena musicale torinese, come Elvin Betti, il chitarrista Slep e Umberto Mari. La title track dell’album è un ritmato collage di frasi e slogan copiati dai muri di Torino, città protagonista anche di altri pezzi, come l’umoristica Filomena. Negli anni 2001 e 2002 è l’ideatore e il direttore artistico della rassegna “Chansonnier Torino”. Nel 2006 Filippo Fonsatti, direttore artistico del Piccolo Regio, assieme a Ernesto Ferrero per la Fondazione del libro, gli chiedono di ideare cinque serate sulla storia italiana attraverso gli slogan. Ne nasce un fortunato ciclo di spettacoli a metà tra musica e teatro (con ospiti assai diversi: dal coro bajolese a Morgan, per fare solo due esempi).

Nell’agosto del 2006 è stato invitato da Enrico De Angelis a suonare al festival nazionale Dallo sciamano allo showman tenutosi in Val Camonica. Nel 2007 musica alcune poesie dell’ultimo libro di Pier Mario Giovannone (L’infinità decrescente, ed. Nero su bianco, Cuneo, 2005) per uno spettacolo ideato e realizzato con l’attrice Tatiana Lepore e l’organettista Filippo Gambetta.
Nel maggio 2009 presenta in anteprima ufficiale al Folk Club di Torino, Un’ora d’aria (ed. block note), il suo nuovo disco a cui hanno collaborato Alex Gariazzo per gli arrangiamenti e alcuni jazzisti di grande rilievo come Gianni Coscia e Giorgio Li Calzi.

www.carlopestelli.com

Buon giorno Carlo, ti diamo il benvenuto su Vetrina delle Emozioni.
Iniziamo questa intervista parlando di te e della tua musica, precisamente partendo da una domanda che definirei doverosa: cosa si intende per ballata “(r)esistenziale” e da dove trae spunto il tuo personale stile compositivo? Come ti sei musicalmente formato e quali sono stati i tuoi punti di riferimento in Italia e all’estero?

Gaetano buongiorno a te e scusa per il ritardo. Volevo prendermela con calma proprio perché fin dalla prima domanda si vede come al giorno d’oggi viaggiano le notizie. Un giorno qualcuno si sveglia e parlando di me scrive ballata “(r)esistenziale” e da quel momento io ne sarei un fantomatico artefice… Anni fa fu peggio, allorché un altro giornalista scrisse che le mie canzoni erano intrise di “ironia militante”. Così succedeva che in rete c’erano alcune info sparse sul mio conto e ogni volta che qualcuno organizzava un mio concerto copincollava a turno ballata “(r)esistenziale” o “ironia militante”. Scherzi a parte, il mio stile è davvero frutto di variegate influenze: blues elettrico, flamenco, rock inglese e US, canzone sociale e teatro canzone. Tra gli italiani, i nomi degli artisti che ho seguito molto da vicino rimanendone via via influenzato sono: Fabrizio de André, Giorgio Gaber, Francesco Guccini, Fred Buscaglione, Luigi Tenco, Piero Ciampi, Claudio Lolli e Fausto Amodei, che cito per ultimo ma per me è importante e famigliare come Joe Cocker per Zucchero.

Parliamo del tuo ultimo lavoro ufficiale “Un’ora d’aria”…

Tappa davvero importante per me. Anzitutto segna l’inizio di un duplice sodalizio con Alex Gariazzo e Benz Gentile. Lavorarci assieme adesso è unire amicizia al lavoro, ma ai tempi ci si conosceva appena per cui c’era quella giusta cautela che non guasta mai. E poi conferma di amicizie antiche: da Gianni Coscia e Giorgio Li Calzi, grandi artisti che già mi regalarono il loro talento in passato, a Lalli, che canta con me in Paloma blanca. Poi Robbo Bovolenta, chitarrista eccelso, che ha arrangiato le chitarre in Aria, il fonico e cantante Guido Nardi, che in Aria e in Lungo fiume ha messo le mani. Di “Un’ora d’aria” si può parlarne bene o male, a seconda. Dicendone male è un lavoro-emblema della mia pigrizia (e la pigrizia per chi vuole fare dischi non va bene in nessun caso): ci sono canzoni come Radio bugliolo che erano state composte molti anni prima e già incise in un CD-raccolta di Musicultura. Per dirne bene premettiamo che ovviamente non sta a me parlarne compiutamente bene. E non è la solita pompa dell’understantement subalpino, ma è solo per banale, primordiale, decenza.  Posso però dire che avevo un progetto e quindi il disco non è stato concepito come una compilation raccogliticcia. Un progetto nel senso di un mondo da rappresentare dal mio punto di vista. L’inizio, per fare subito un esempio, è una canzone ispirata a un dialogo con un indigente. Poco è minimalismo puro già dal titolo.  Nelle canzoni successive, Bar sotto casa, Aria, ma vale anche per le sarcastiche Senza di te e Il mio funerale, provavo a fotografare, con il mio linguaggio, anni di vuoto pneumatico. Anni in cui la stessa parola ‘ideologia’ suona fastidiosamente vetusta (quasi come ‘cantautore’)  e infatti nessuno la usa più. Dal mio punto di vista, vigeva però, vige tutt’ora, la dannosa ideologia della rapidità, per cui tutto oggi richiede di essere consumato rapidamente: il paesaggio, il tempo, i libri, i dischi. Ideologia, o distopia a questo punto, che coincide con il falso progresso, con l’effimero eletto a sistema, molto più che negli anni ottanta. Qualcosa che in definitiva ci ha fregati tutti. In questo senso Aria è la canzone più emblematica del disco: “tempo stringente, immanentemente presente” con anche un riferimento ai morti nel rogo della Thyssen, quando dico: “una città che non ha stima della morte / dove importante è sempre e solo andare oltre”. Mi riferivo alla volontà di organizzare, da parte degli amministratori della città di Torino, una festosa notte bianca a due passi dalla fabbrica di corso Regina, pochi mesi dopo quel terribile incidente. Riferimento che se non spiego non si può cogliere, lo so. Un mio amico ci lesse una presa di posizione contro la festa di Halloween… Allora forse il titolo del disco è più capibile. L’ora d’aria di noi coatti, diversamente carcerati, prigionieri della libertà e dei suoi tribuni. Ancora adesso non c’è un partito che non sventoli sta libertà fasulla: Polo della libertà, Futuro e libertà, Sinistra, ecologia e libertà. Mentre ragionavo su queste cose, scrivendo i testi per il disco, una sera invito a cena Lalli. La volevo coinvolgere in  Paloma blanca. Figlia di un partigiano e artista controcorrente, mi sembrava la persona giusta per cantare la strofa in cui fa capolino una partigiana, Agnese (riferimento letterario al famoso libro di Renata Viganò). Quella sera fu proprio lei ad aprire un discorso perfettamente in linea con le idee che cercavo di esprimere nei testi che stavo scrivendo. Diceva che oggi tutti usano le parole per autocelebrarsi e per questo la parola oggi non significa più nulla. Mi trovavo, mi trovo, perfettamente d’accordo. L’eccesso di comunicazione sta distogliendo l’uomo dal bello, dalle cose autentiche, dalla natura. Io stesso devo darmi malato al lavoro per leggere un libro fino in fondo, anche perché sono sempre connesso a sto computer. Guardo i centri storici delle città, specialmente le città grandi e medio-grandi, in cui botteghe durate almeno tre generazioni sono ormai riconvertite in centri vodaphone, tim, wind ecc. Facci caso: si tratta di negozi aperti sempre, peggio dei centri massaggi cinesi o dei bar dotati di videopoker, e fanno il continuato anche il sabato, per spillarti soldi alla minima disattenzione. So di famiglie che sommando ciò che spendono genitori e due figli in cellulare buttano centinaia di euro al mese. Assurdo, se penso che questo avviene in un’epoca in cui anche tra diversi continenti si può comunicare gratuitamente. Il senso del disco mirava a cercare un’ora d’aria dalla prigionia di questa libertà fagocitante e mal gestita.

Carlo Pestelli - Da quando conosco te

Carlo Pestelli

Le tue “Folk ballads” (passami la definizione dal sapore internazionale) spesse volte rappresentano un’istantanea della tua città natia: Torino. Quanto è importante per te Torino in chiave compositiva e qual’è il tuo rapporto con questa metropoli?

È un rapporto stanco, come non può non essere per uno che di non torinese ha solo il cognome. Tutto il resto, i portici, i viali, i fiumi, i locali mi ricordano continuamente qualcosa o qualcuno. Ci sono dei momenti in cui il mio campanilismo si fa patetico, come per il calcio. Tifo per entrambe le squadre. Ma la storia insegna che qualunque fesso subalpino che scrive, il discorso vale da Vittorio Alfieri a Paolo Conte, ha una sorta di spiemontesizzazione obbligatoria da scontare (discorso impensabile per un ligure o per un napoletano, per fare due esempi, che viceversa fanno leva sul loro essere liguri e sulla loro napoletanità. Per tacere dei toscani…). Ho sposato infatti una donna del sud proprio per sfuggire alla comunicazione dialettale, almeno in casa. A parte ciò, Torino ora attraversa una crisi profondissima e ha una classe di governo in cui la componente-salotto prevale pericolosamente. La gestione anche solo informativa del TAV in Val Susa è esemplare. Davvero vorrei che il sindaco attuale o l’ex sindaco facessero cambio anche solo per un mese con il sindaco di un comune della bassa Val Susa. Da un po’ di tempo di Torino se ne parla bene con troppa faciloneria, forse perché per troppo tempo, in passato, se ne parlava male. Per decenni è stata la città grigia e triste e monoFIAT. Io il mattino mi alzo molto presto perché a scuola, dove insegno, ho sempre la prima ora: dalla rapida chiacchiera del bar prima della prima lezione, all’ultimo sorso di qualcosa quando il cielo è già buio, mi sembra di vivere in una città di tamarri pazzeschi. Intendiamoci: ‘tamarro’ è una parola bellissima, un arabismo. Non tutti sanno che in origine il tamarro è il ‘venditore di datteri’. Ma questo naturalmente non c’entra nulla con l’oggi. Oggi la parlata e la scrittura del tamarro torinese è oramai una calamità. A Torino siamo tutti quanti tamarri o in via di tamarrizzazione (il barista, i negozianti in generale, i miei allievi e gli ex allievi tutti, indistintamente, tranne forse qualche timido rumeno, alcuni colleghi). Sfoglia, anzi leggi con cura La Stampa e più ancora Torino sette e alla fine sei un tamarro anche tu, per ipnosi. Gramellini, con il suo elegante argomentare cerchiobottista è anch’egli un tamarro di rara fattura. Un tamarro subdolo oltretutto. Conservo i suoi ‘buongiorno’ criptorazzisti, i miei preferiti, e potrei (potrebbe) già farne un libricino. Leggilo bene quando scrive dei napoletani o dei romani… La Littizzetto? L’hai letta mai mentre si interroga dove spalmare la caccola, lei direbbe il carciofo, aspettando il verde? È così da un bel po’ di anni. E non cambieremo facilmente. Il celebre adagio di Eco per cui senza Torino l’Italia sarebbe stata altra cosa, mentre senza l’Italia Torino sarebbe rimasta assolutamente uguale, credo che sia ormai da mettere nel museo degli aforismi. Torino è italianissima.

Alcuni tuoi brani cantano l’amore a volte in modo ironico, come la divertente “Filomena”, altre volte in modo più profondo e delicato, come nel caso della meravigliosa “Lungo fiume”. Esiste qualcos’altro oltre la tematica che  mette in relazione due canzoni all’apparenza così diverse nella formula espositiva, oppure sono da considerarsi semplicemente due modi differenti di argomentare la medesima situazione?

Probabilmente due modi diversi per una situazione che se non è la stessa è simile. Tuttavia Lungo fiume è la malinconia, cioè il rimpianto per qualcosa (qualcuno) che avremmo voluto ma abbiamo appena sfiorato; mentre Filomena specchia la cruda nostalgia di qualcuno che abbiamo avuto e che il tempo ci ha tolto. Diciamo che, manuale alla mano, la prima è colei ch’ogn’om la mira, mentre Filomena è la Becchina di Cecco.

Che spazio assumono l’Uomo e il suo contesto sociale nelle riflessioni poetiche finemente descritte dalle trame linguistiche e dai giochi di parole di Carlo Pestelli?

Uno spazio notevole. Sono molti gli artisti che mi hanno influenzato e che continuo, scoprendone sempre nuove e vibranti risorse, ad ascoltare e stavolta ti cito i miei eroi stranieri: Brassens, Dylan, Springsteen, Ben Harper, Darrell Scott. In ognuno di loro è l’uomo, l’essere umano, il motore ispirativo. L’uomo, il cittadino, e non il consumatore addomesticato. L’uomo che è meraviglioso frutto del caso, perché nulla è più casuale dell’essere al mondo, e quindi proprio perché casualmente capitato in un angolo del mondo è del caso una pedina, infima, e non il patriota felice d’essere nato da qualche parte. In questo senso la canzone sarcastica di Brassens (in italiano ottimamente tradotta da Patrucco e in piemontese ancora meglio da Amodei) sulla gente contenta d’essere nata da qualche parte, è per me un riferimento culturale certo.

I testi delle tue ballate risplendono gradevoli di quella luce fatta della sostanza poetica propria del cantautore affievolitasi negli ultimi anni dietro le logiche del mercato discografico italiano.A tuo avviso è il mercato discografico a creare modelli o più semplicemente è esso stesso modellato per rispondere alle attuali esigenze sociali in campo musicale?

Non so se oggi si possa parlare di mercato discografico sapendo davvero a cosa ci si riferisce. Aggiungi che come artista tutto sommato invisibile al mercato (e t’assicuro non certo per posa) non me ne intendo. Credo che ultimamente il mercato discografico sia condizionato dai reality, ma ripeto: ne so troppo poco. I festival folk che frequento io tipo Un paese a sei corde, nel novarese, o Madame Guitare, in Friuli, sono posti di cui i discografici probabilmente ignorano l’esistenza. Poi ti rivelerò un segreto: io i discografici non so nemmeno che faccia abbiano. Una volta mi capitò di avvicinarne uno, ai tempi notissimo, ma di profilo, non fu veramente un faccia a faccia. Parliamo di chi ha snidato Ligabue, non un produttore qualunque. Tornavamo entrambi dallo stesso indimenticabile concerto di Springsteen, al Palamalaguti di Bologna, ottobre 2002. Autogrill che potrebbe essere quello di Stradella e che ribolliva visibilmente di fan del Boss. Al bancone, concentratissimo nel suo caffè espresso, riconosco Daniele Soave, padrone di Mescal, e mi avvicino. Mi scorge e probabilmente fiuta agguato di giovane artista relazionerebbe scopo matrimonio discografico. Gli faccio: gran concerto eh? E lui: davvero! E via, nelle nebbie della bassa, ognuno verso il suo casello.

Restando in tema, negli ultimi vent’anni come pensi sia cambiato (se è cambiato) il modo di “comunicare” musica in Italia?

Da un punto di vista della divulgazione secondo me siamo assai indietro rispetto ad altri paesi. In una libreria italiana, per esempio, i libri di popular music devi andarteli a cercare, lontani come sono dagli espositori in cui si susseguono biografie di celebri noti o instant book. Trovo ad esempio Stefano Bollani formidabile, come musicista naturalmente, ma anche come divulgatore. Eppure proprio lui, assieme a certo Alberto Riva, ha appena pubblicato per Mondadori un libro con alcune leggerezze sconcertanti, del tipo che McCartney e Lennon non scrissero canzoni assieme, quando anche i bambini sanno che specialmente tra il 1962 e il ’65 i due Beatles scrivevano spesso a quattro mani. Questa tua settima domanda è davvero impegnativa perché richiederebbe un piccolo saggio. Non sono successe poche cose negli ultimi vent’anni. Secondo me c’è di buono che la radio, nonostante Internet e dintorni, è comunque ancora viva e lotta insieme a noi.

Il fermento musicale degli ultimi anni sta portando alla luce nuove proposte, soprattutto nel panorama indipendente, che sembrano prediligere la canzone d’autore. Possiamo considerarlo un possibile “Risorgimento” della musica italiana impegnata o in realtà quella fiamma che ci ha tenuti legati a cantautori quali De André, Guccini, De Gregori ed altri in realtà non si è mai del tutto spenta ed ha continuato ad ardere nel sottobosco musicale riemergendo in modo più evidente soltanto adesso?

Credo che da un punto di vista stilistico, i tre grandi artisti che tu citi costituivano importanti novità anche perché si rifacevano a modelli stranieri, come Brassens, Guthrie, Dylan e Peter Gabriel. Per cui erano in un certo senso delle copie, ma di qualcosa che arrivava da fuori. I cantautori di oggi si rifanno invece a italiani abbastanza insuperabili, come quei tre qui sopra, per cui non potranno mai avere la stessa forza d’urto. Il mio amico Gian Maria Testa, per esempio, trovo sia un ottimo artista, ma per la continuità con italiani che l’hanno preceduto è un quasi bignami della canzone d’autore (nei suoi dischi senti echi di Conte, De Gregori e perfino di Concato). L’unico artista per me davvero durevole degli ultimi vent’anni, mi riferisco a Capossela, è uno che giustamente va a sgraffignare nei Balcani oppure nella Grecia del rebetico, cioè in terre ancora abbastanza inesplorate dagli italiani. Per il resto, non vedo in generale nessun “Risorgimento” all’orizzonte. Anni fa ero un buonista della prima ora e in quasi ogni concerto cercavo l’aspetto che più mi piaceva. Difficilmente ne uscivo a pancia vuota. Oggi è il contrario. Vado ancora in giro a sentire, ci mancherebbe, ma quasi sempre mi sembra che i grandi facciano il verso a loro stessi e gli altri si arrabattano come possono, con pochi slanci però, con poca voglia di rischiare. Sottolineo comunque che il mio punto di vista è probabilmente troppo limitato: il panorama indipendente a cui fai riferimento non lo frequento abbastanza da poterne dire.

Carlo Pestelli SaltoNelle tue diverse sessioni dal vivo è possibile notare in te un’anima artistica “a tutto tondo” capace di combinare il momento musicale con quello prettamente teatrale. Quanto è importante per te “raccontare” non solo attraverso la musica ma anche attraverso le immagini?

Raccontare è effettivamente il verbo chiave. Nel senso che uno che come me si rifà alla tradizione dei cantautori, parte sempre o quasi sempre da qualcosa di forte da raccontare. Motivo per cui il disco a un certo punto s’ha da fare, ma solo se il materiale fin lì raccolto vale davvero la pena ‘raccontarlo’. Aggiungi che due artisti, diversissimi tra loro, che mi hanno cambiato il punto di vista sono stati Guccini e Gaber. Anni fa, uscire dai loro spettacoli era edificante come aver visto tre film d’un fiato, proprio perché al talento vocale (Gaber) e alla bellezza delle canzoni (Guccini), univano il gusto della narrazione e la capacità di stare sul palco.

È prevista a breve termine un’altra ora d’aria ovvero sia un’ulteriore ed energica boccata d’ossigeno per gli appassionati della buona musica italiana d’autore? Ci daresti, se puoi, qualche anticipazione su i tuoi progetti futuri in studio ma non solo?

Dopo Un’ora d’aria ho cercato il più possibile di suonare dal vivo le canzoni del disco. Ormai sono passati oltre quattro anni. L’anno scorso ho fatto un EP di quattro pezzi; s’intitola Da quando conosco te. Disco fisicamente in linea coi tempi di crisi: costa cinque euro (contiene quattro canzoni) e lo vendo ai concerti. In realtà l’ho concepito come antipasto del prossimo album che però vorrei fare curando i dettagli al mio meglio e senza farmi fuorviare dalla fretta. Spero tra un anno a quest’epoca avere un disco finito o in dirittura di mix. Ci risentiremo?

Sicuramente si e con grande piacere. Attendendo entusiasti un tuo possibile (probabile) nuovo lavoro, noi di Vetrina delle Emozioni ti porgiamo i nostri più sentiti ringraziamenti e ti auguriamo un anno venturo ricco di serenità e soddisfazioni, professionali e non.

A cura di Gaetano Cuffari

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