Intervista di Gioia Lomasti e Marcello Lombardo a Toni Capuozzo
Toni Capuozzo affermato giornalista, corrispondente, conduttore, scrittore e molto altro ancora; tra tutte queste realtà quale senti più vicina alla tua persona?
Io ho sempre detto che “faccio” il giornalista, non che “sono” un giornalista. Un po’ perché faccio fatica a identificarmi in una categoria, un po’ perché ci sono capitato un po’ per caso. Ho molti amici tra quelli che fanno questo lavoro, ma specie tra gli inviati, non sono un animale da redazione. Ho adattato la professione alle mie passioni, che sono scrivere e viaggiare. In questo senso mi sembra ridicolo definirmi “collega” di tanti altri bravi professionisti, che però fanno un lavoro molto diverso dal mio, nei tribunali o in parlamento, o nelle redazioni. Siamo specie diverse. Io rispetto la loro ma non sono mai riuscito ad appassionarmi alle vicende sindacali, alle vicissitudini della categoria. Mi sento più come un viaggiatore, che prova a raccontare le storie cui assiste. Lo faccio con la penna o con la voce, con le immagini o con libri. Ma avendo un’idea alta della scrittura, non voglio neanche definirmi scrittore. Sono e sono stato un’inviato, che si reputa ancora fortunato di trovare qualcuno che gli paga i viaggi, e tanti che stanno a sentire quel che ha da raccontare.
Che significato assume la vita di tutti i giorni per un inviato di guerra?
Ho sempre rifiutato l’etichetta di corrispondente dì guerra. Un po’ perché non ho fatto e non ho voluto fare solo questo. Un po’ perché la definizione comunica un’idea retorica del mestiere, tra il Rambo e il testimone sacrificale. Una retorica che accetto solo per i colleghi che non ci sono più. Per quel che mi riguarda, specie dopo un servizio lungo e impegnativo in zone di guerra mi sono sforzato di fare servizi “normali”, inchieste nella provincia italiana, cronaca. Per rimanere con i piedi ancorati a terra, per non diventare uno specializzato di situazioni estreme, per restare in contatto con i mondo che è poi quello cui racconti anche le tue storie di guerra. Nella vita di tutti i giorni le esperienze in zona di guerra mi hanno lasciato, oltre a un mare di ricordi e a qualche fantasma, la convinzione che anche le piccole cose – la nostra democrazia malandata, una passeggiata a piedi, la lettura quieta dei giornali la domenica mattina, la noia del vivere quotidiano – sono preziose. Troppo spesso lo dimentichiamo, le diamo per scontate.
Quale è il tuo punto di vista su come vivono gli italiani la realtà della guerra degli altri paesi?
Ovviamente è un modo di viverle per come vengono riflesse dall’informazione. Se l’informazione si limita a un bollettino ripetitivo delle vittime, c’è assuefazione, come se l’orrore protratto producesse anestetizzazione. A volte ci sono fiammate d’interesse, se un conflitto ripropone gli schemi degli eterni conflitti italiani: in Iraq, ad esempio, c’era una lettura di sinistra e una di destra, e allora l’informazione si schierava – io ho provato a non farlo – e l’opinione pubblica anche, come se si trattasse di un fatto di politica interna. Ma quando la destra non sa chi sponsorizzare e la sinistra neanche, dalla ex Jugoslavia alla Siria, gli italiani vivono i conflitti lontani come una storia penosa, su cui scuotere la testa, senza poter farci nulla, e alla fin fine abituandosene come a realtà incomprensibili e distanti. Qualche volta, se ci sono di mezzo gli Stati Uniti, per una specie di riflesso condizionato c’è un risveglio di passione, ma è solo il pretesto per la recita di un’identità ideologica.
Hai collaborato con Mauro Corona alla realizzazione di uno spettacolo teatrale dal titolo “Tre uomini di parola” la cui finalità è la costruzione di una casa alloggio per il centro grandi ustionati di Herat in Afghanistan, parlaci di questa vostra collaborazione e di come è nato il progetto che l’ha rappresentata.
Il Centro ustionati di Herat – o meglio la casa di accoglienza per i parenti dei ricoverati e per i pazienti dimessi – è una realtà. E’ stata costruita anche grazie al nostro impegno, oltre che a quello dell’Associazione nazionale alpini, e al lavoro degli alpini dell’Ottavo reggimento della Julia. Furono loro a chiederci un aiuto per una serata benefica, e Mauro Corona, Gigi Maieron e io ci trovammo su un palco senza copione alcuno. Ne nacque uno spettacolo sempre improvvisato, in cui non recitiamo ma mostriamo noi stessi, che ha avuto una cinquantina di repliche e ancora ogni tanto rimettiamo in scena. Soprattutto, adesso, per il piacere di ritrovarci tra vecchi amici e compaesani, come per una rimpatriata.
La guerra spiegata ai ragazzi, l’ultima tua pubblicazione, e’un libro indirizzato solo ai giovani o un messaggio che possiamo considerarlo un incipit rivolto ad altre fasce d’età?
E’ rivolto principalmente ai ragazzi, ma credo possa essere utile anche agli adulti. E’ uno strumento per provare a capire la realtà, un manualetto in cui ho provato a mettere a disposizione informazioni ed esperienze. Le informazioni possono essere uno strumento di lavoro per ragazzi e insegnanti. Le esperienze sono quelle che mi è piaciuto di più provare a comunicare. Naturalmente c’è anche un messaggio, contro la guerra e contro ogni violenza. Ma io non sono un predicatore ideologico, non devo convincere nessuno. Provo a dire alcune cose, e le lascio lì, come un messaggio in bottiglia.
Il futuro e’ l’incognita che possiamo prevedere, ma non decidere, secondo te il presente può essere fonte di consapevolezza per un futuro migliore?
Il presente è figlio del passato, e capire il passato è importante. Nello stesso tempo il presente è il padre del futuro, è il momento in cui si costruisce, nel bene e nel male, il mondo di domani. Io non sono, o non sono più, un sognatore eccessivo, anche se credo che è triste avere vent’anni e non avere grandi sogni. Per me, non auspico grandi rivoluzioni. Mi accontento che si metta qualche cerotto ai mali del mondo, sarebbe già abbastanza.
Ritieni che il web sia uno strumento indispensabile per l’informazione e l’approfondimento o i canali tradizionali quali radio, televisione e quotidiani restano i più attendibili?
Per me nessuno è attendibile per principio. L’attendibilità è come la responsabilità penale: è individuale. E va conquistata sul campo. Per quel che mi riguarda non ho mai avuto atteggiamenti da oracolo della Verità. Mi basta che i miei lettori o telespettatori apprezzino il tentativo di essere onesto. Posso sbagliare, ma non lo faccio mai per secondi fini. Non ho bandiere ideologiche, né politiche, né altro. Ho pochi principi, e uno di questi è essere dalla parte dei deboli, delle vittime. Quanto alla rete, è uno strumento essenziale, anche perchè scavalca il professionismo dell’informazione, e ogni cittadino può essere editore di se stesso. Ma anche la rete, e a maggior ragione quando è coperta da anonimato, può essere come la parete di un gabinetto pubblico, su cui chiunque può scrivere insulti e sconcezze e falsità. Anche qui, l’attendibilità è personale.
C’e’ una domanda alla quale ti sarebbe piaciuto rispondere ma che non ti e’ mai stata formulata?
Sì. Quando smetterai di lavorare ? Risposta: mai, finchè il fisico regge. Perché per me è stato non un lavoro, ma una passione. Tra non molto andrò in pensione, dopo trentadue anni di carriera. Ai quali dovrei aggiungere anni di altri lavori, da operaio o da insegnante, e tanti lavori in nero di cui non c’è traccia nel profilo pensionistico. Continuerò a fare cose, a scrivere, viaggiare, fare pezzi per la televisione, perché è come se fosse il mio tempo libero, quello.
Ti ringraziamo per la tua disponibilità.
A cura di Marcello Lombardo & Gioia Lomasti
in esclusiva per il sito vetrinadelleemozioni.com
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