Intervista di Matteo Montieri e Gioia Lomasti a Stephen Alcorn, artista polimorfo e Professore di belle arti presso la Virginia Commonwealth University
Stephen Alcorn nasce negli Stati Uniti, la sua formazione avviene a Firenze, in Italia, presso l’Istituto Statale d’Arte. Da allora la tecnica artistica si è unita alla storia del XIX secolo ed ai classici della letteratura, spaziando altresì all’ispirazione dedita alla musica e alla poesia, conseguendo numerosi riconoscimenti e mostre a livello internazionale. È possibile visionare parte della rassegna della sua attività artistica consultando il portale www.alcorngallery.com.
Stimatissimo Professor Alcorn, la ringraziamo molto per questo incontro virtuale, in esclusiva per vetrinadelleemozioni.com.
Ogni corrente artistica ha con dovute eccezioni una radice comune, cioè è espressione di un’impressione e vuole immortalare il movimento dell’immagine o la sua perfezione, potrebbe illustrare perché rappresenta in questo modo i suoi personaggi, quale la spiegazione per queste dimensioni, gli sfondi, le geometrie di tali opere?
Derivo la mia ispirazione da una grande varietà di fonti. Nella mia opera esiste una sorta di dicotomia-una specie di ramificazione caratterizzata dalla divisione dell’apice in due apici, ciascuno dei quali può, a sua volta, bipartirsi, ecc… Sono innamorato dell’arte anonima popolare (in particolar modo quella italiana del 16esimo secolo e quella Americana del 18esimo secolo). Questo mio amore per l’arte cosiddetta “naif” nacque in tenera età e continua a rispecchiarsi nei trattamenti e stili deliberatamente “arcaici” esplorati e sviluppati nel corso del mio percorso artistico. Ho sempre tratto ispirazione dagli artisti più virtuosi della storia dell’arte ed in particolar modo dagli esponenti che si sono distinti nel campo del disegno, più precisamente quello del disegno dal vero. Queste fonti includono, ma non si limitano a Pisanello, Botticelli e Da Vinci per l’arte “antica”, Degas, Lautrec e Picasso per quella “moderna”. La pratica giornaliera del disegno dal vero continua a giocare un ruolo saliente che si rispecchia anche nella mia vita professionale. I disegni eseguiti dal vero servono a informare trattamenti più esplicitamente stilizzati delle opere create “a memoria”, e viceversa. Oscillo come un pendolo da una “pratica” all’altra. Possiamo forse attribuire questo fenomeno al fatto che sono nato sotto il segno della Bilancia? Questa tendenza fa sì che la mia produzione artistica possieda un carattere deliberatamente eclettico; di conseguenza è difficile connettere la mia opera a un’unica “radice comune”. In questo senso la mia evoluzione artistica costituisce una specie di microcosmo della storia dell’arte e la sua evoluzione, anziché la “reincarnazione” di un momento particolare di detta storia.
Da dove nasce l’idea di un De André sia nei panni del trovatore sia nei panni dell’eroe?
Per me l’arte di De André rappresenta una magnifica confluenza di qualità formali e spirituali. La sua maestria musicale, nonché l’indelebile concisione dei versi, rivelano una comprensione profonda della condizione umana ed una compassione nei confronti di coloro che sono meno fortunati. Sappiamo che l’arte di De André rappresenta un momento trionfante nella storia della canzone d’autore italiana; ma a mio avviso costituisce anche un momento eroico, in quanto rappresenta una sfida coraggiosa da parte di un artista nei confronti della società consumistica odierna-una sfida che invita alla contemplazione sia del bene che del male, anziché ad un’evasione dalle loro inevitabili implicazioni morali. Il contributo artistico/culturale di Fabrizio De André trascende il momento preciso storico in cui ha operato e vissuto. Ho voluto rappresentare De André nella forma d’icone: fu a tale fine che ho deciso, sin dal primo ritratto della serie, di impiegare la tecnica xilografia che ricorda le stampe popolari del XVI secolo e sposarla ad una visione romantica dei fatti ben radicata nella storia delle crociate. Vediamo quindi De André nelle vesti di menestrello – in bocca il fiore di “Bocca di rosa” ed in seguito si identificherà nel cavaliere medievale, araldico e mitologico.
Le sue opere sentono l’influenza di qualche corrente artistica in particolare?
Le stampe popolari italiane della collezione Bertarelli da una parte, e l’avvento del cubismo dall’altra. Ed in mezzo a questi due estremi stilistici, i disegni dal vero della maturità di Edgar Degas.
Sempre parlando delle suo Opere si riscontra l’uso della tecnica della linoleografia, secondo lei questa tecnica può essere usata a livello universale o possiede delle particolarità, che restringono i campi di attuazione?
L’arte della linoleografia è fra le più rigorose, in quanto non perdona un errore. Inoltre richiede un livello di sintesi che soltanto uno studio approfondito dei processi di distillazione e stilizzazione può fruttare. Mostrai dalla più giovane età una ben definita personalità artistica, iniziando proprio sull’immagine grafica e con la linoleografia. Essendo figlio d’arte, ebbi modo di acquistare una vasta cultura artistica e di frequentare la sezione arti grafiche dell’Istituto Statale d’Arte di Firenze. Ne prese così l’avvio una certa dimestichezza con quelle tecniche grafiche che sono andato sempre più affinando con il tempo, ampliando, parallelamente le mie conoscenze sui maestri dell’arte, dal Rinascimento ai giorni nostri. Io ho sempre operato nella tradizione dei pittori-incisori del passato, per i quali non vi è mai stata distinzione tra la Fine Art e l’illustrazione, lavorando indifferentemente sul dipinto e sull’incisione. Nella mia ricerca vengono pertanto affrontati gli aspetti fondamentali che sviluppati e approfonditi, ne hanno segnato la mia personalità di artista: l’indagine tecnica, soprattutto intorno alle possibilità espressive della linoleografia e, naturalmente, lo studio di un segno caratterizzante e personale. Nel primo caso avviene una progressione logica in cui ciascuna scoperta tecnica equivale ad una evoluzione del linguaggio formale. Oltre alle numerosissime incisioni in nero, dal forte contrasto che colpiscono proprio per l’impatto aggressivo, affronto la stampa a colori secondo una progressione per successive complessità, fino a giungere negli anni ottanta, a risultati di particolare finezza e eleganza, come nelle incisioni che io definisco Reduction Prints, e Light Over Dark (colore chiaro sopra lo scuro). In queste silografie tendo a superare i presunti limiti di tale tecnica, ottenendo effetti che rivelano, ad esempio, una particolare osservazione della luce, oltre ad una fluidità di segno e una gamma cromatica che solitamente si ritrovano nelle più evolute forme di pittura a olio. Per me è sempre stato importante essere in grado di operare contemporaneamente su una varietà di linguaggi formali, non in modo arbitrario, ma secondo la natura del soggetto stesso, da una visione arcaica del mondo in cui la semplicità è di primaria importanza, ad una interpretazione più complessa della cose nella quale e richiesta l’applicazione delle tecniche più sofisticate, così da rendere il mio vocabolario visuale ricco, vario e vitale.
Ad esempio l’uso della texture, di una ripetizione d’immagine nello sfondo non rischia di schematizzare troppo l’ambientazione? Secondo la sua visione soggettiva è più facile e utile creare una visione oggettiva delle cose o dare una visione un po’ sfaccettata e fantasiosa rispetto alla sua realtà?
In realtà una disciplina non è necessariamente più facile o più significativa di un’altra. Ad esempio: un dipinto di Vermeer è nello stesso tempo una “visione oggettiva” e “fantasiosa”. Per quanto mi concerne, è verso una confluenza delle due qualità ( a mio avviso complementari) che cerco di mirare quando eseguo i miei lavori. L’esempio di Bosche (e più recentemente quello di Magritte) dimostra che l’oggettività non preclude necessariamente la realizzazione/espressione di una “visone fantasiosa”, e viceversa.
La linoleografia è una tecnica che può essere considerata un punto di incontro tra artigianato e grafica, o è un lavoro di costruzione manuale che però essendo finalizzato allo scopo di una creazione grafica, è solo ad usufrutto del pittore?
Sono cresciuto e mi sono formato al fianco di una figura esemplare di progettista grafico: mio padre John Alcorn (1935-1992), indubbiamente uno dei maggiori protagonisti della grafica statunitense della seconda metà del Novecento, con alle spalle una significativa esperienza italiana, vissuta a Firenze con tutta la famiglia (dagli inizi degli anni Settanta, quando io ero poco più che dodicenne). Frequentando l’Istituto Statale d’Arte di Firenze, mi sentì fortemente attratto dalle tecniche incisorie, dai metalli ai legni, alla litografia, soprattutto dal relief-block che più tardi affinerò fino al punto di farne una cifra stilistica della mia personalità e, più in generale, della stampa manuale.
Il progettista grafico nel costruire l’impianto strutturale della pagina, oltre all’ideazione e alle scelte tipografiche che gli competono, nella maggior parte dei casi, per sopperire alle esigenze figurative deve ricorrere al bagaglio iconografico preesistente, sia rivolgendosi ai database fotografici delle grandi agenzie specializzate, sia ai materiali di appartenenza del campo artistico-illustrativo. Non è raro comunque il caso di illustratori che sopperiscono in proprio anche al progetto grafico e che nella loro esperienza hanno saputo acquisire un forte senso della rappresentazione grafica, senza dover necessariamente operare in presenza di art director. Lo studio-galleria che gestisco a Cambridge, New York, rimanda in un certo senso a quelle antiche botteghe che producevano immagini; un pregio questo che in tempi più remoti veniva riservato solo ad alcune famiglie di artisti, come i Soliani di Modena o i Remondini di Bassano (XVI-XVII secolo), oppure come è stato nel caso dell’ottocentesca «Imagerie d’Epinal» in Francia.
Io mi considero un artista grafico «produttore di immagini», ed un esponente di detta tradizione artigianale. Tutto questo per dire che nella mia opera non emergono soltanto radici culturali statunitensi, poiché la mia è stata una formazione di carattere internazionale, su cui ho costruito la mia identità, ma va però ricordato che essendo cresciuto accanto a un padre-maestro con alle spalle un background di matrice eclettica della giovane tradizione americana – l’episodio del Push Pin Studio insegna – è auspicabile che la mia opera rafforzi quella cultura. A tutto questo si innesta l’importante esperienza acquisita a Firenze, città impregnata di sapiente artigianalità, che ha contribuito a formulare un imprinting, una sorta di «marchio di fabbrica» dello spirito artistico fortemente radicato. Gli artisti con cui mi sono sempre identificato tecnicamente e stilisticamente, sono i pittori-incisori Durer, Rembrandt, Goya, Picasso e Morandi.
Molti soggetti dei suoi lavori sono musicisti, ci parli del suo rapporto con la musica, ha dei punti di riferimento per la sua “artisticità” nell’essere lei stesso crescente musicista?
Ebbi la fortuna di trascorrere una parte della mia adolescenza sotto il “segno” del fenomeno che fu la musica degli anni sessanta. In seguito, negli anni settanta, ebbi la fortuna di scoprire l’arte di De André. Poco dopo la sua morte, avvenuta nel 1999, fui contattato da sua moglie, Dori Ghezzi. Tramite il fotografo Guido Harari, aveva scoperto il mio sito e il mio primo ritratto Deandreano e aveva deciso di riprodurre detto ritratto sul frontespizio di un volume in fase di progettazione intitolato E poi, il futuro (Mondadori, 2001). In seguito altri ritratti furono inclusi nel volume intitolato Fabrizio De André. Una goccia di splendore. Un’autobiografia per parole e immagini a cura di Guido Harari. Inoltre altri 7 ritratti furono inclusi nella mostra antologica itinerante intitolata Fabrizio De André: La Mostra.
Una reazione a catena straordinaria, specie se si considera che non ho mai avuto l’onore e il piacere di incontrare Fabrizio di persona. Ma forse questo non è esattamente vero: nonostante i sentieri della nostra vita abbiano seguito percorsi diversi è come se lo avessi sempre conosciuto: tale è la capacità dell’arte di trascendere le limitazioni carnali, di spazio e di tempo. Pertanto non deve destare meraviglia il fatto che come artista visuale che vive e lavora in un lontano punto del nostro pianeta mi senta spinto a riflettere sulla magnifica opera e gli splendidi risultati conseguiti da questo Artista con l’A maiuscola. Il fatto che la Dori pensi che abbia reso giustizia al personaggio costituisce il segno che uno dei miei sogni di artista si è realizzato. I miei ritratti di Fabrizio fanno parte di una serie su vari musicisti contemporanei che ho cominciato ad ideare circa 15 anni fa’. Dopo aver creato per anni ritratti di grandi figure del passato, ho iniziato ad avvertire la necessità di rappresentare personaggi che hanno contribuito alla formazione culturale della mia generazione. Un mattino, a colazione, mentre conversavo con mia moglie Sabina sul desiderio di avvicinarmi a nuovi temi, siamo ambedue giunti alla conclusione che dare forma allegorica e volto agli artisti che hanno segnato musicalmente le nostre esistenze avrebbe potuto costituire una magnifica esperienza. Ci siamo sempre considerati fortunati di essere cresciuti sotto le ali di talenti come Dylan, De André, i Beatles e gli Stones. Così lavorando sulla base dei ricordi ed attingendo ai recessi della mia memoria ho iniziato a dare forma artistica concreta ai nostri eroi musicali. Il risultati sono una serie di icone musicali. Riflettendo ora su questa serie che è ancora in accrescimento, rilevo che essa costituisce un percorso pieno di sperimentazione sulla tecnica dell’incisione linoleografica. Mi sembra particolarmente appropriato che l’infinita varietà della musica moderna abbia trovato riscontro in una incessante sperimentazione nel modo di rappresentare gli artisti. Nell’interpretazione dei personaggi musicali da me trattati, quasi sempre ne traggo una composizione fortemente simbolica e che nella sintesi del segno grafico riassume l’espressività del soggetto rappresentato; la tavola, inoltre, viene conclusa anche in senso decorativo, con piccoli motivi geometrici, floreali, astratti, in forme cristallizzate; a tal punto che non si tratta mai di una illustrazione che necessita poi di un testo esplicativo, ma la tavola realizzata ha una sua autonomia e anche se concepita in dimensioni contenute, sembra sempre destinata alla iconicità di un poster. Nella galleria di ritratti denominata «Modern Music Masters» che sto realizzando da tempo c’è spesso una ricerca di introspezione psicologica del personaggio trattato, a cui si accompagna una elaborazione tecnica appropriata. Cerco sempre di coniugare la sintesi dei tratti somatici del soggetto, l’interpretazione colta del ritratto con gli innegabili rimandi all’arte, sia quella affermata, sia quella popolare e naïf. In questa rappresentazione simbolica della galleria degli interpreti del mondo musicale, troviamo personaggi mitici come Bob Marley, effigiato con la caratteristica capigliatura che qui si trasforma in una foresta di serpenti; si tratta di un’incisione con cinque matrici e con la tecnica del dark over light (colori scuri trasparenti sovrapposti ai colori chiari). C’è una Joan Baez raffigurata come una madonna che regge il Bambino – Bob Dylan con chitarra -, in verità, una tavola un po’ dissacrante dell’iconologia religiosa, ma divertente per i personaggi presi di mira. Il ritratto di Eric Clapton in azione, assume un cromatismo acceso, dal vago sapore psichedelico, tanto da rievocare, come per altre tavole di questa serie, l’atmosfera hippie degli anni Settanta. In un altra tavola, il volto di John Lennon è impresso su un telo, che fa pensare al sudario della Sindone; il grande artista è inquadrato da rovi spinosi e da una colomba morta, che simboleggia la sua persona. Ancora Lennon, in un’altra incisione con Paul McCartney, baronetti raffigurati come i re dei cuori delle carte da gioco. Miles Davis sembra vittima di un rito vudu, mentre la tavola titolata Gospel According Elvis, si trasforma in un’icona mistica. In un’altra rappresentazione, vediamo Ray Charles che suona il pianoforte in un mare di lacrime. Una delle incisioni più emblematiche dell’intera serie, rappresenta di profilo Mick Jagger, un ritratto che si compone di un intreccio di uomo-drago-demonio, che bene identifica il conturbante protagonista di quarant’anni di musica moderna; sopra il capo ha un CD che gli fa da aureola, e allora forse è anche la rappresentazione di un San Giorgio che lotta con se stesso. L’incisione è realizzata con quattro matrici di stampa, ottenuta con colori intensi.
Comporre e suonare dal vivo serve a portarmi più vicino ai processi creativi impiegati dai musicisti che ammiro di più, sino a informare i trattamenti concettuali e stilistici che caratterizzano la serie Modern Music Masters.
Oltre il suo impegno a livello artistico è anche professore all’Università di Virginia, crede sia possibile oltre le basi d’insegnamento poter infondere ai suoi allievi il grande valore dell’arte?
Credo fermamente in questo. Mi considero un Umanista; di conseguenza non posso che credere e sperare in detta possibilità.
La mia attività di istruttore necessita che pratichi quanto insegno; e siccome una buona parte del mio curriculum consiste nell’insegnare agli studenti i precetti fondamentali inerenti alla pratica del disegno dal vero, io approfitto di questa opportunità per lavorare al loro fianco; da questa esperienza sta nascendo un’ampia serie di opere che evolvono giornalmente e non per niente la serie si chiama “Daily Drawings”. Dal punto di vista pedagogico questo ciclo di omaggi alla Sabina in chiave naturalistica sta funzionando sia come fonte d’ispirazione per gli studenti, che come dimostrazione concreta dei parametri tecnici e stilistici da considerare ed entro cui operare. Sto cercando di coltivare/restaurare un’amore per i processi creativi organici ed intuitivi di una volta ( in contrasto/contrappunto ai processi digitali che sembrano avere un’effetto deleterio sulla gioventù odierna, ahimè!).
Conducendo l’Alcorn Studio & Gallery assieme a sua moglie Sabina, anch’essa dedita disegnatrice (nel suo caso di botanica) secondo lei l’arte su commissione ha lo stesso valore di un arte contemplativa e soggettiva, può essere ugualmente veritiera e portatrice di un messaggio individuale?
Le vetrate di Chartes, la Cappella Sistina di Michelangelo, e le affiche di Toulouse-Lautrec furono realizzati “su commissione”. Potrà anche sorprendere, ma persino Guernica fu realizzata su incarico del governo e destinato a decorare il padiglione spagnolo (durante l’Esposizione mondiale di Parigi del 1937). E che dire delle illustrazioni bibliche di Rembrandt, e delle quindici tavole xilografiche dell’Apocalisse elaborate tra il 1496 e 1497 da Durer, o dei Disastri della Guerra di Goya? La storia dell’arte dimostra che le distinzioni di qualità soventemente fatte fra le opere d’arte “personali” e le opere d’arte “commissionate” sono false e quindi prive di sostanza.
Essendo figlio d’arte saremmo onorati se potesse raccontarci un aneddoto o un pensiero a ricordo di suo padre John Alcorn, ad oggi celebrato tra le maggiori grandezze in fatto di designer ed illustrazioni.
Una componente essenziale dell’opera di mio padre è la presenza floreale: il fiore come elemento decorativo, come icona simbolica e, in sostanza, come organo primario del sentimento. Il fiore sta a mio padre come le nuvole a Constable e le mele a Cézanne. È quindi naturale che la fioritura mentale di un simile idealista coincida con la fioritura di una controcultura predicata sulla base di una fede romantica nel potere dell’amore di redimere i mali della società. Per quanto il movimento hippy sia stato sfruttato dal mercato, la sua genesi scaturisce da uno dei più puri istinti umani. Non a caso diverse delle opere più influenti di mio padre – quelle in cui il suo temperamento e la sua filosofia di vita vengono portati alla luce con la massima concisione, chiarezza e fantasia – avrebbero avuto come motivo centrale un fiore o un gruppo floreale. Lo testimonia l’abbondanza di immagini degli anni Sessanta in cui le forme delle lettere che compongono la parola AMORE sono elaborate proprio con elementi floreali; o l’immagine lirica della PACE da lui creata nel 1969 – un dipinto in cui la canna di una pistola si trasforma in un nodo da cui emerge un solitario fiore giallo, con gambo e foglie morbide e ondeggianti. Il ciclo acquista un maggiore significato quando nel 1974 crea un acquarello che rappresenta il trionfo dell’anima sulla sofferenza. Un’immagine composta e delicata in cui una rosa solitaria emerge, trionfante, da una roccia. Il ciclo raggiunge l’apice nel 1987 con la creazione del francobollo della serie “Amore” per i servizi postali americani. Per questo incarico mio padre creò un’immagine metaforica con tonalità pastello in cui un fiore si trasforma in un cuore policromo fiammeggiante – tributo commovente sul potere alchemico dell’amore di trascendere e conciliare. Quando penso all’opera di mio padre mi viene in mente questa fusione simbolica di due elementi universali in un insieme più ampio, emblematica del suo spirito e dei suoi principi come essere umano.
Cosa ricorda positivamente del suo passato artistico? In qualche modo ne è stato d’auspicio ad oggi?
Ricordo con affetto il momento in cui mio padre mi consigliò di iscrivermi alla sezione di arti grafiche presso l’Istituto Statale d’Arte. All’epoca avevo 12 anni. Fu un momento fatidico. E ricordo con particolare affetto la progettazione e realizzazione, di due dipinti – uno destinato ad adornare la copertina di Oro Delle Tigri di Borges e l’altro la copertina di Blu di Prussia di Ennio Flaiano, entrambi pubblicati da Rizzoli, e con la veste grafica di mio padre.
Cosa si augura per il futuro?
In veste di Direttore del programma universitario estivo intitolato FLORENCE REVEALED: Drawing At The Crossroads of Renaissance Thought and Vision, ho l’onore di trascorrere il mese di giugno a Firenze. L’iniziativa consiste nell’introdurre agli studenti gli splendori della cultura rinascimentale. Nonostante l’enfasi venga messa su Firenze, esploriamo anche Siena, Pisa e Venezia. Nel corso del nostro soggiorno gli studenti disegnano all’aperto e dal vero, in punti culturali di rilevanza storica come per esempio Piazza Santissima Annunziata, Il Bargello, La Loggia di Piazza della Signoria, Il Giardino della Rose, Giardino dei Boboli, ecc. Da questa esperienza collettiva è nato un epistolario visuale che narra le tappe salienti della nostra avventura. Trovo che questa serie sia significativa, in quanto emblematica del mio desiderio di restaurare alla pratica del disegno dal vero un senso di scoperta/meraviglia, nonché continuare a cementare il mio amore per l’Italia. Mi auguro un giorno questa serie di “sketch books” possa essere pubblicata.
Inoltre, mi auguro di poter realizzare in pieno un ciclo d’immagini su cui sto lavorando attualmente intitolato Hieros gamos. Si tratta di una serie di raffigurazioni iconografiche policrome di natura autobiografica. Questa serie è fra le più personali della mia opera, in quanto rappresenta una celebrazione del mio amore per Sabina. In questa serie il sentimento è simboleggiato da sovrapposizioni dei nostri volti – una manifestazione simbolica e simbiotica della nostra unione ed una celebrazione del pensiero aristotelico “L’amore è composto da un’unica anima che abita due corpi”.
Grazie per questo suo graditissimo contributo.
Sono io che devo ringraziare voi per la vostra gentile attenzione.
A cura di Matteo Montieri e Gioia Lomasti
Impaginazione a cura di Marcello Lombardo
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