Intervista di Gioia Lomasti a Guido Mattioni, giornalista e autore di emozioni attraverso i suoi libri
Gioia Lomasti in collaborazione con Vetrina delle Emozioni, sito e blog, ringrazia infinitamente l’autore Guido Mattioni per questo meraviglioso contributo a noi dedicato.
Figurati, sono io che ringrazio te per l’attenzione che hai voluto dedicare a me e al mio lavoro. Te ne sono grato.
In che modo l’attività giornalistica ha influenzato e modificato il tuo stile di scrittura letteraria?
Inizierei facendo una distinzione di fondo, senza per questo eludere la domanda. Dandoti, semmai, una risposta più articolata. Mi spiego: la lunga attività giornalistica ha plasmato, più che influenzato, il mio modo di scrivere romanzi. Lo dico nel senso che nella narrativa ho inevitabilmente portato quel mio “io” costruito in quarant’anni di lavoro, senza abbandonarlo e men che meno tradirlo, atteggiandomi magari a letterato con spocchia salottiera. Dio me ne scampi, detesto i salotti letterari e sono rimasto sempre lo stesso, pur se in un modo che è giocoforza diverso. Anche nei miei articoli, nei reportage dai più diversi e lontani angoli del mondo, nelle interviste e nei ritratti a personaggi di ogni genere – dal premio Nobel al drogato, dal grande manager al rapitore di bambini, dal capo di Stato all’operaio in sciopero – ho sempre cercato di privilegiare il racconto, la descrizione dei luoghi così come delle persone, tracciando i profili dei personaggi, cercando di farli “vedere” a chi legge. Perché, se viaggiare il mondo è bello, il viaggio più emozionante e arricchente rimane quello attorno all’uomo. Poi è ovvio che la dimensione letteraria abbia offerto al Guido Mattioni giornalista qualcosa in più. Tanto di più, direi. Mi ha dato due cose che, proprio per la specificità del suo lavoro, sono invece negate al giornalista; e cioè spazio e tempo. Lo spazio nel senso di quelle grandi praterie – le pagine, le tante pagine di un libro – dove poter far correre libere le parole, privilegio che ovviamente non potevo avere nel mio lavoro. Senza dimenticare il fattore tempo, dilatatosi anche quello, rispetto a quando il caporedattore mi chiamava e mi diceva: “Ho bisogno di 80 righe, non una dipiù, e ne ho bisogno tra due ore”.
Le tematiche affrontate nei tuoi libri sono parte integrante della tua vita personale?
Lo sono in parte, senza alcun dubbio, come del resto è abbastanza inevitabile che sia. Questo vale soprattutto per i miei primi tre romanzi, quelli usciti a distanza di un anno l’uno dall’altro e poi raccolti nel volume Trilogia Americana. Perché se il primo, Ascoltavo le maree, come spesso succede con il romanzo d’esordio, ha molto di autobiografico, strettamente legato com’è al periodo più dolorosa della mia vita, il secondo, Soltanto il cielo non ha confini, è invece figlio legittimo di una delle esperienze giornalistiche che più mi hanno segnato dentro – e parlo degli anni Ottanta – quando da inviato speciale passai giorni e notti con gli agenti del Border Patrol americano che pattugliano h24 quella che è forse la linea di demarcazione più pericolosa e al tempo stesso più drammatica e angosciante al mondo, quella che divide il Messico dagli States, tracciata dal corso del Rio Grande. E cioè da una parte la miseria e dall’altra l’eccesso e lo spreco; di là il buio del deserto e di qua costellazioni di luci al neon; su una sponda il sogno di un futuro migliore che toglie ogni paura agli immigrati clandestini e sull’altra il timore nei loro confronti da parte di chi, invece, il proprio sogno, realizzato e consolidato, lo vuole difendere dall’invasione di masse di disperati.
Ho capito. Ma il terzo romanzo, Conoscevo un angelo, come lo definisci e dove lo collocheresti? Anche in quello c’è molto di Guido Mattioni?
Certo, in modo diverso ma c’è. Nel senso che il terzo romanzo l’ho inteso come un mio doveroso e sincero omaggio, dopo più di trent’anni di viaggi negli States, a quei milioni di americani senza nome che per necessità, ma spesso anche per scelta di libertà, vivono senza un tetto stabile sulla testa, facendo della strada la loro vera casa e di quattro ruote i loro piedi. Parlo di omaggio dovuto perché quella gente mi ha dato tanto in cambio di nulla. In quei miei trent’anni e più di viaggi, ne ho incontrati e conosciuti tanti, di americani così, uomini e donne: nelle stazioni di servizio; oppure seduti sullo sgabello accanto al mio in un coffee shop; o, ancora, ammazzando il tempo a chiacchierare fino a notte fonda, discutendo e facendo filosofia spicciola, ma quanto mai profonda, sotto le verandine delle camere di motel da pochi dollari dei tanti “non luoghi” sperduti che racchiudono, in fondo, la vera anima della stessa America, quella che di certo non si trova né a New York né tantomeno a Los Angeles. E voglio dire di più. Dico, cioè, che di questi uomini e donne senza nome me ne sono “innamorato”, invidiandoli per il loro coraggio esistenziale e rimanendo affascinato dalla loro umanità. Per questo ho voluto scrivere un romanzo dedicato a loro.
In che maniera la lettura ha plasmato il tuo viaggio nell’essere autore?
In modo fondamentale. Chi non legge non può avere la presunzione di voler scrivere. Ma non può pretenderlo nemmeno chi ha letto solo pessimi libri e autori di quart’ordine, quelli che fanno cassetta. Io dico sempre che si impara a scrivere bene solo leggendo quelli bravi, i grandi, i Maestri. Leggerli è come andare a scuola. Leggere invece libri di attori o cantanti, di calciatori o politici – scritti perdipiù raramente da loro e molto spesso dai ghostwriter – è solo tempo e denaro sprecato. Per non parlare degli alberi sacrificati per produrre la carta necessaria a stampare le loro banalità.
Esiste una fonte che ha ispirato la scrittura del tuo ultimo romanzo, La morte è servita? E in che misura la realtà è riflessa in esso?
La fonte dei miei romanzi è sempre “là fuori”, cioè nel mondo. Vicino o lontano che sia. Basta avere l’umiltà e la curiosità necessarie per fermarsi un attimo e guardare, osservare, conoscere e capire. Per poi narrare. A volte sorridendo, altre commuovendomi. In fondo, ripeto, è solo un modo diverso per continuare a fare quello che ho fatto da giornalista per quasi tutta la vita: raccontare. E “là fuori”, ormai da anni, si muove e ci comanda un Moloch pericolosamente forte, oltraggiosamente ricco, ingiustamente potente e comunque privo di cuore, che si chiama Global Economy. Un potere che nessuno ha mai votato ed eletto, ma che gioca con il destino di 8 miliardi di persone, plasmandolo e pilotandolo a proprio piacimento.
In che modo è nato il titolo del libro, che appare decisamente forte?
È nato proprio per far capire, in modo inequivoco, dove sta scivolando il mondo, tutto nel nome del profitto di poche multinazionali e dei superstipendi di chi le guida. Io mi sono occupato per tanti anni anche di economia e le multinazionali le ho raccontate dall’interno, andandole a vedere da dentro. Ma se ancora negli anni Novanta anche le più grandi aziende avevano conservato almeno il barlume di un concetto prezioso e fondamentale – la Responsabilità sociale – oggi non se ne trova più traccia. E questo da quando a impadronirsi del mondo produttivo, quello cioè delle cose tangibili, di quella che un tempo era l’Economia, sono stati i fighetti della Grande Finanza. Gli uomini d’impresa, voglio dire, avevano ancora un’anima. I fighetti no, loro vivono solo di numeri, di percentuali, di zero virgola. E i numeri un’anima non ce l’hanno. Quindi il titolo, anche quello farina del mio sacco, doveva essere un cazzotto. Doveva colpire duro. Doveva fare male, pur se a fin di bene: per fare capire, per aprire gli occhi alla gente.
Gli argomenti trattati quali tematiche affrontano?
Questo romanzo è fiction, ci tengo a dirlo. È, cioè, una storia inventata, come è normale che sia quando si fa narrativa. Ma purtroppo, guardando che cosa succede ogni giorno “là fuori”, è anche una storia plausibile. Sono, cioè, fatti che potrebbero accadere e che, ahimè, stanno già accadendo. Come appunto il grande intrigo che è al centro del romanzo. Un intrigo tramato da centri di immenso potere economico-finanziario, ma anche politico, ai danni dei consumatori di tutto il mondo, iniziando da ciò che i più fortunati tra loro possono permettersi di fare tre volte al giorno: sedersi a tavola e mangiare. Ma mangiare che cosa? Fatto come? Con quali materie prime? Con quali rischi per la salute dei consumatori?
In effetti, viene da pensare. Qual è comunque la differenza rispetto ai tuoi libri precedenti?
Direi che la principale differenza stia nello stato d’animo con cui l’ho scritto. E cioè più da cattivo, se mi passi il termine. Pur se usando sempre, come scoprirà il lettore, il filo rosso di una scrittura venata comunque di ironia, con la volontà di fare anche sorridere. Perché in fondo l’ironia è parte inscindibile di me. Scrivendo questo libro – e torniamo alla tua domanda iniziale – ho riscoperto l’animus di chi ha fatto per tanto tempo il giornalista d’inchiesta, e cioè quello del mastino, del cane da guardia, senza mai porsi il problema di chi siano i polpacci da dover mordere. Vanno morsi e basta.
Esiste un messaggio particolare che desideri comunicare al tuo lettore attraverso quest’opera letteraria?
Certo. Ed è più di un messaggio, è un accorato appello: mai come oggi stai attento a quello che metti in tavola e mangi tre volte al giorno. E stai attento soprattutto a quello che dai da mangiare ai tuoi bambini. Perché “là fuori” poche persone strapotenti hanno capito che i sani non rendono, non danno profitto.
Quali caratteristiche dovrebbe possedere un libro per risultare vincente?
Potrà sembrare banale, ma per me, da vecchio giornalista di lungo corso, mai come oggi la caratteristica più importante dovrebbe essere quella di riuscire a far pensare e ragionare. Perché il potere ha paura di chi pensa e ragiona con la testa sua. Non a caso il potere ama e usa la televisione, proprio perché spegne il pensiero e il libero raziocinio. E l’altra caratteristica – sarò ancora più banale – è che un libro sia scritto bene.
Qual è l’importanza del web per la promozione di un progetto editoriale? In che misura è possibile ottenere un seguito tramite piattaforme virtuali e quale tipologia di promozione si dovrebbe attuare in tale contesto?
Penso che il web, fatta la tara di tutti i suoi difetti, abbia ridato vita a qualcosa di molto importante e nobile: il passaparola. Sul web e sui social tanti purtroppo ancora imprecano, strillano e insultano; ma grattando via questa sporcizia ha anche ridato voce alla gente, si è fatto piazza, o se vuoi agorà, nel senso più civile del termine. Non è poco. Anzi, di questi tempi è molto.
Nato a Udine nel 1952, Guido Mattioni ha vissuto a Milano quarant’anni (vi arrivò nel ’78, assunto da Indro Montanelli al Giornale Nuovo), spesi in importanti quotidiani, settimanali e mensili, ricoprendo via via tutti i ruoli, da cronista a vicedirettore, incarico che però, da insofferente qual è alle scrivanie, ha lasciato sua sponte per ritornare al ruolo a lui più congeniale, quello di inviato speciale, in viaggio intorno al mondo e attorno all’uomo. Dal 2015 vive nella Repubblica di San Marino, che ama in quanto luogo di sorrisi e Antica Terra della Libertà. Dal 2022 ne ha acquisito la residenza, pur senza mai dimenticare la sua “casa lontano da casa”, la bellissima Savannah, in Georgia, dov’è cittadino onorario dal 1998. Questo è il suo quarto romanzo, dopo Ascoltavo le maree (2013), Soltanto il cielo non ha confini (2014) e Conoscevo un angelo (2015) – adottati dalla Georgia State University di Atlanta come testi dei corsi di italiano – raccolti poi nel volume Trilogia americana (2020).
Mind Edizioni è un marchio di Media & Co Editoria-Comunicazione srl (Milano). L’immagine fotografica dell’autore, in quarta di copertina, è di Nino Leto.
Questa intervista comprensiva di testo e immagini è realizzata in esclusiva per vetrinadelleemozioni.com e non può essere riprodotta ne in maniera totale e/o parziale senza il consenso degli autori
A cura di Gioia Lomasti in collaborazione con vetrinadelleemozioni.com